COVID-19 e inquinamento
Nei giorni scorsi è circolato un position paper, a firma di un gruppo di ricercatori della Società Italiana di Medicina Ambientale (Sima) e delle Università di Bologna e di Bari, che riporta una possibile e presunta associazione tra inquinamento da particolato atmosferico (PM) e diffusione del COVID-19. Lo studio in questione ha evidenziato come esista una “solida letteratura scientifica che correla l’incidenza dei casi di infezione virale con le concentrazioni di particolato atmosferico, PM10 e PM2,5“. Nel caso specifico del contagio da Coronavirus in Italia, il rapporto ha analizzato i livelli di smog di febbraio. In particolare, sono stati presi in esame i dati di concentrazione giornaliera di PM10 rilevati dalle ARPA tra il 10 e il 29 febbraio e i dati sul numero di casi infetti da COVID-19 riportati sul sito della Protezione Civile. In relazione al periodo 10-29 febbraio, concentrazioni elevate superiori al limite di PM10 in alcune Province del Nord Italia, potrebbero aver esercitato un’azione di boost, cioè di impulso, alla diffusione virulenta dell’epidemia in Pianura Padana. Questa ipotesi ha avuto un’ampia eco sui media e sui social suscitando molto interesse, ma sarebbe opportuno sottolineare come questa sia una pubblicazione preliminare, per cui le cosiddette conclusioni non si possono esprimere se non con il condizionale e in considerazione dell’esistenza di altri studi sul tema. Il periodo di monitoraggio disponibile per l’indagine epidemiologica, inoltre, è ancora troppo limitato per trarre conclusioni scientificamente solide, in relazione ai moltissimi fattori che influenzano il tasso di crescita del contagio.
E’ noto come l’esposizione, più o meno prolungata, ad alte concentrazioni di PM aumenti la suscettibilità a malattie respiratorie croniche e cardiovascolari e come questa condizione possa peggiorare la situazione sanitaria dei contagiati. Queste alte concentrazioni sono frequentemente osservate nel nord Italia, soprattutto in Pianura Padana, durante il periodo invernale. Allo stesso modo, è possibile che alcune condizioni meteorologiche, tipicamente presenti nel nord Italia in questo periodo, quali la bassa temperatura e l’elevata umidità atmosferica, possano creare un ambiente che favorisce la sopravvivenza del virus. Queste condizioni che, in genere, coincidono con una situazione di stabilità atmosferica intensa, favoriscono la formazione di particolato secondario e l'incremento della concentrazione del PM in prossimità del suolo. La covarianza fra condizioni di scarsa circolazione atmosferica, formazione di aerosol secondario, accumulo di PM in prossimità del suolo e diffusione del virus, tuttavia, non indica necessariamente un rapporto di causa-effetto. All’inizio di marzo, quando hanno cominciato a circolare le immagini satellitari che mostravano l’impressionante riduzione delle emissioni di biossido d’azoto provocata dagli effetti del nuovo Coronavirus in Cina, molti hanno pensato che questa terribile crisi avrebbe potuto avere almeno un effetto positivo: rallentare il cambiamento climatico. Le emissioni di gas serra sono direttamente legate alle attività produttive e ai trasporti, ed entrambe le cose sono state fortemente ridotte dalle limitazioni imposte ormai da tutte le principali economie del mondo per fermare la diffusione della pandemia.
Analogamente, nelle ultime settimane, le concentrazioni di biossido di azoto in Pianura Padana sono diminuite del 50%, come riporta uno studio del Sistema nazionale di protezione ambientale (SNPA). L’analisi è stata realizzata sul periodo che va dal 23 febbraio all’11 marzo, integrando i dati del Programma europeo Copernicus con quelli raccolti sul territorio dalle Agenzie per la protezione dell’ambiente delle regioni e delle province autonome (ARPA e APPA). Le variazioni giornaliere analizzate in questo periodo sono state influenzate anche dalle condizioni meteorologiche, ma mediamente si può osservare una progressiva riduzione dell’inquinamento diffuso, a partire dalle restrizioni imposte in Lombardia e Veneto. Mentre gli altissimi livelli di inquinamento hanno rappresentato una grave criticità nel mese di gennaio e per buona parte di febbraio, anche la concentrazione di polveri sottili nell’aria è letteralmente crollata nell’ultimo periodo.
Questo ci spinge inevitabilmente a riflettere su quanto sia pesante l’impatto delle nostre azioni sulla salute del Pianeta e ad agire di conseguenza, ma se a prima vista questa può sembrare una buona notizia per il clima, le cose potrebbero apparire molto diverse se si guarda oltre il breve periodo. Tutte le recenti crisi economiche (gli shock petroliferi degli anni settanta, il crollo del blocco sovietico, la crisi finanziaria asiatica degli anni novanta) sono state accompagnate da riduzioni delle emissioni – anzi, le crisi economiche sono state gli unici momenti nella storia recente dell’umanità in cui la crescita costante delle emissioni si è interrotta. Ogni volta, però, il calo è stato di breve durata, e la ripresa economica ha portato con sé un aumento delle emissioni. Il motivo è che l’andamento delle emissioni non dipende solo da quello dell’economia globale, ma anche dalla cosiddetta intensità di emissione, cioè la quantità di gas serra emessa per ogni unità di ricchezza prodotta. Fatih Birol, direttore esecutivo dell’Agenzia internazionale dell’energia, ha avvertito che la crisi economica prodotta dalla pandemia potrebbe avere conseguenze disastrose per la transizione energetica globale. Il 70 per cento degli investimenti mondiali in energia pulita dipende dalle finanze pubbliche. Per questo, avverte Birol, è essenziale che le misure di stimolo diano la precedenza all’economia verde. Inoltre i governi potrebbero approfittare del crollo del prezzo del petrolio per ridurre i sussidi pubblici agli idrocarburi senza provocare grosse reazioni, e investire quelle risorse nella sanità.
Recentemente la Commissione europea ha presentato il suo piano per un green deal europeo e la proposta di legge sul clima che prevede l’impegno ad azzerare le emissioni nette entro il 2050. Questi progetti non dovrebbero essere accantonati con il pretesto della crisi economica, come probabilmente chiederanno alcuni stati membri, ma essere messi al centro della politica di investimenti pubblici straordinari che ormai tutti gli economisti giudicano necessaria. L’emergenza sanitaria in atto sta dimostrando che le azioni radicali funzionano e che a volte sono necessarie. Per quale motivo queste azioni non sono ancora state intraprese, nonostante anche quella climatica sia una vera e propria emergenza? Non resta che sperare, in quest’ora così buia, in un radicale cambiamento nella consapevolezza individuale, sociale e politica e che i governi capiscano che occorre agire sulla base di questa consapevolezza oltre che su quella della necessità.