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Samantha Pilati

Ambarabà ciccì coccò… Ma domani piove o no?



Tutti coloro che si occupano di meteorologia e previsioni meteorologiche si sono, prima o poi, sentiti porre la fatidica domanda: “Ma come si fanno le previsioni?”

Sono tanti gli strumenti necessari per elaborare una buona previsione (oltre, ovviamente, all’esperienza del meteorologo stesso), ma un ruolo fondamentale è giocato dai modelli meteorologici: si tratta di modelli fisico-matematici basati su algoritmi che risolvono varie equazioni differenziali; già nel 1922 Richardson intraprese il primo tentativo di predizione numerica, ma solo tra gli anni ‘60 e ’70, con lo sviluppo di computer e calcolatori, questo divenne realmente possibile.


I movimenti dell’atmosfera sono governati da leggi fisiche che possono essere riassunte da una serie di equazioni. I modelli hanno proprio lo scopo di risolvere tali equazioni, attraverso diversi procedimenti, prevedendo così l’evolvere della situazione meteorologica.

Le equazioni vengono risolte su una griglia tridimensionale, che suddivide idealmente l’atmosfera in tanti piccoli volumi, il cui centro ne rappresenterà il valore medio. La dimensione di questi volumi, inoltre, caratterizza la risoluzione spaziale di un modello numerico.

I modelli necessitano di dati di input per produrre i risultati (questo processo viene chiamato inizializzazione). Tali dati vengono forniti da una fitta rete di osservazioni meteorologiche, provenienti da tutto il mondo, la cui raccolta avviene nel quadro di cooperazione stabilito dal Programma World Weather Watch del WMO (Organizzazione Meteorologica Mondiale): si tratta di dati di stazioni meteorologiche di superficie, boe oceaniche, radiosondaggi verticali, satelliti e radar; a questi valori misurati si aggiungono quelli da essi interpolati, al fine di coprire tutta la griglia.


Le equazioni risolte forniscono così informazioni meteorologiche per ogni punto di griglia considerato: alcune variabili sono fornite direttamente dai risultati del modello, come la pressione, la temperatura, l’umidità e il vento; altre informazioni, invece, vengono ricavate da algoritmi di post-elaborazione dell’uscita modellistica (è il caso, per esempio, della copertura nuvolosa e delle precipitazioni). Tutti questi risultati numerici vengono poi rielaborati graficamente, fornendo le cosiddette carte meteorologiche.

I modelli che coprono tutta l’atmosfera terrestre vengono chiamati globali: tra i più conosciuti vi sono quello americano, sviluppato dal NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration), noto come GFS (Global Forecasting System) e quello sviluppato dall’European Centre for Medium-Range Weather Forecasts (ECMWF), il centro di calcolo europeo di Reading.

I modelli a scala globale forniscono informazioni sino anche a due settimane dal momento di inizializzazione, con dettagli ogni 6, 12 o 24 ore: chiaramente, più ci spostiamo avanti nel tempo, più la previsione può risultare affetta da errori.


Se si vuole concentrare l’attenzione su una porzione limitata di atmosfera terrestre, anziché su tutto il globo, si utilizzano invece i modelli a scala limitata, conosciuti come LAM (Limited Area Models): essi hanno il vantaggio di poter avere una risoluzione maggiore (dimensione della griglia anche inferiore ai 5 km) e di poter tener conto di effetti locali dovuti, per esempio, all’orografia o alla microcircolazione. Presentano, tuttavia, anche degli inconvenienti: serve difatti un maggior numero di dati di inizializzazione e, soprattutto, essendo “limitati”, necessitano delle condizioni al contorno. Il problema viene risolto inizializzando i modelli a scala limitata con i dati previsti dai modelli a scala globale; ne consegue, però, che eventuali errori del modello globale si ripercuotano su quello locale, con conseguente loro propagazione; per questo, tendenzialmente, i LAM elaborano previsioni per una durata di giorni inferiore rispetto ai modelli globali.


Infine, un modello meteorologico globale può essere fatto girare più volte, cambiando leggermente le condizioni iniziali, ottendendo in questo modo differenti scenari evolutivi: si tratta in questo caso dei modelli d’ensamble, i cui risultati, graficamente, vengono rappresentati con quelli che più gergalmente vengono chiamati “spaghetti”. Nel breve termine i differenti scenari evolutivi tendono a essere molto simili tra loro, soprattutto se siamo in presenza di condizioni di stabilità atmosferica; con l’aumentare del tempo, invece, tende ad aumentare l’incertezza previsionale e il divario, quindi, tra i differenti scenari, soprattutto se siamo in presenza di una spiccata dinamicità atmosferica.

Ma come vengono utilizzate dai previsori queste carte meteorologiche? Lo scopriremo insieme la prossima settimana…


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